Saturday, September 19, 2009

Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI – Parte II




Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI – Parte II


di Cristina Siccardi


La riforma liturgica del 1970 rappresenta la massima realizzazione della montante marea del desiderio di rinnovamento all’interno della Chiesa, di cui il Concilio Vaticano II fu il vessillo, più che la base dottrinale. In contrasto con quanto stabilito dalla Costituzione Conciliare Sacrosantum Concilium, la quale prevedeva il mantenimento dell’idioma di Cicerone e di Sant’Agostino quale lingua liturgica per tutta la Chiesa latina, la riforma in parola decretò il passaggio alle lingue nazionali di tutta la Liturgia. La portata del mutamento fu enorme, anche in quanto, al di là delle differenze contenutistiche dei riti, l’abbandono della lingua dei Cesari decretò la morte del concetto stesso di lingua sacra all’interno della Chiesa cattolica, eliminando questo strumento che l’aveva accompagnata, almeno nella sua parte occidentale, fin dal suo sorgere, prima con il greco e, poi, con il latino.

Il «fenomeno generale delle lingue sacrali […], ampiamente diffuso, scaturisce dalla tensione che l’uomo avverte tra la vita di ogni giorno e ciò che per l’uomo religioso appartiene al mondo soprannaturale, divino. Tale tensione ha conseguenze per la lingua umana, strumento così profondamente umano e al contempo così delicato. […]

Questo carattere sacrale dell’antica liturgia latina, manifestantesi in una stilizzazione rigida, monumentale, che solleva letteralmente la preghiera al di sopra delle banalità della vita di ogni giorno, ha entusiasmato, ha infiammato i fedeli nel corso dei secoli. Si desidererebbe che nelle traduzioni dei testi liturgici nelle lingue nazionali si conservi qualcosa della loro grandezza sacrale. [Concetto che Benedetto XVI riprende nella Lettera inviata ai Vescovi in accompagnamento al motu proprio Summorum Pontificum]. Purtroppo ci si imbatte in grosse difficoltà; molti fedeli del nostro tempo hanno perso il senso del sacrale. Ma anche quando si cerca onestamente di conservare il carattere sacrale dei testi latini non è facile trovare una forma equivalente nelle lingue nazionali moderne. La maggior parte di esse è così “laicizzata” da non possedere più, o quasi più, i mezzi per una stilizzazione sacrale. Ciò che sono riusciti a realizzare i cristiani latini dei primi secoli soltanto in un periodo avanzato, attingendo alla pienezza dell’uso linguistico cristiano, potrà maturare soltanto lentamente nelle nostre lingue, se si vuol conservare il carattere sacrale dei testi liturgici. Richiederà molto sforzo ed una ricerca “amorosa” delle possibilità offerte dalla propria lingua il tentare la realizzazione di traduzioni corrispondenti al nostro tempo: traduzioni che non pregiudichino la ricchezza spirituale dei testi liturgici.

[…] La secolare tradizione letteraria di Roma, sia nella sua forma profana che cristiana, sopravviverà nel latino medievale. Con ciò inizia però una nuova fase della vita del latino, in cui si incontrano e si alimentano reciprocamente nel corso dei secoli le due suddette tradizioni. Questo latino medievale, lingua ufficiale della Chiesa, dell’insegnamento, all’inizio soprattutto nelle mani di ecclesiastici, e lingua universale di una cultura in lenta ascesa, costituirà per secoli il fermentum e il vinculum unitatis dei popoli dell’Europa occidentale. Più di ogni altro elemento esso ha favorito il sorgere di una cultura cristiana occidentale.» (Christine Mohrmann, Unità e continuità del latino cristiano antico nella Chiesa d’occidente, in Osservatore Romano, inserto speciale per l’ottantesimo compleanno di Sua Santità Papa Paolo VI f.r., 25 settembre 1977).

La perdita della lingua sacrale della Chiesa ha vieppiù acuito il senso di novità e la rottura con tutta la tradizione precedente, soprattutto perché alcuni settori del mondo cattolico e della stessa gerarchia vedevano in ogni cambiamento il presupposto e la premessa per un’ulteriore smantellamento dell’edificio ecclesiale. Essi si autodefinivano come gli interpreti dello «spirito del Concilio», termine assai vago, dietro il quale si nascondeva un desiderio di una sorta di «rivoluzione permanente», che non voleva l’applicazione dei testi conciliari, quanto la loro sublimazione: il Concilio non era visto come un evento, da cui scaturivano dei portati da applicare, ma come un momento rivoluzionario, il cui valore non stava tanto in ciò che affermava, quanto nel fatto che poteva essere inteso come il grimaldello, con cui scardinare la Chiesa della Tradizione, per sostituirla con una nuova, in cui non esistesse il concetto stesso di stabilità, ma tutto fosse in divenire. È l’applicazione alla Chiesa della sindrome rivoluzionaria, che condanna i regimi sedicenti completamente nuovi e negatori di ogni continuità con il passato ad una deriva estremistica indeterminata, fino al loro crollo o alla loro trasformazione violenta, entrambi necessitati dalla materiale impossibilità di proseguire su quella strada, impossibilità normalmente rappresentata dalla fame e dalla miseria che colpiscono la stragrande maggioranza della popolazione. Gli esempi più eclatanti sono rappresentati dalla Rivoluzione francese e da quella russa.

Nella Chiesa, però, questo meccanismo non si è innescato, in quanto, la riforma liturgica non è stata presupposto di ulteriori cambiamenti, ma ha segnato, di fatto, un argine invalicabile, oltre il quale, nonostante abusi, “sperimentazioni” e “tentativi di sfondamento”, non si è andati. Si è, così, venuta a creare una situazione di stallo, nella quale l’ondata degli “innovatori” è stata arginata, ma, allo stesso tempo, il senso di cesura tra la “Chiesa post-conciliare” e la “Chiesa tridentina”, come spregiativamente veniva chiamata dai suoi detrattori la chiesa precedente al Vaticano II rimaneva profondo, sia nel sentire dei fedeli, che nei documenti ufficiali. Si aveva quasi la sensazione che il Concilio Vaticano II avesse segnato la nascita di una nuova Chiesa, molto, se non del tutto, diversa dalla precedente, ma che, allo stesso tempo, questa Chiesa nuova non fosse più in grado di rinnovarsi e che, quindi, il cammino fosse interrotto. E tutto ciò nella cornice di una progressiva marginalizzazione della Fede cattolica dal contesto sociale.

Un primo grosso scossone a questo stato di cose è stato dato da Giovanni Paolo II, che ha segnato un primo passaggio dal contenimento dell’attacco modernista, caratteristica del Pontificato di Paolo VI, all’offensiva, con il rilancio della spiritualità popolare, così censurata ed insultata dagli “innovatori”. Ma è con Benedetto XVI che la cesura è annullata e che il Concilio è letto alla luce della Chiesa di sempre; che la storia della Sposa di Cristo viene letta come un flusso ininterrotto, sia pure contrassegnato da errori e peccati, di attuazione della parola portataci dalla Parola, cioè da Gesù. Si è cessato, in altre parole, di leggere la storia della Chiesa alla luce del Concilio, ma si è iniziato a leggere il Concilio alla luce di Cristo, attualizzato nella storia dalla Sua Chiesa, in ogni epoca, senza sterili contrapposizioni.

Non è un caso che il primo atto legislativo del nuovo Pontefice sia stato il motu proprio che ha, di fatto, liberalizzato e, senza dubbio, anche se indirettamente, incoraggiato l’uso della liturgia precedente alla riforma. Essa è, per limitarci alla Santa Messa, la Liturgia del Santo Sacrificio che, con lievi ritocchi nei secoli, ha caratterizzato la Chiesa latina a partire, almeno, dal IV-V secolo. Con la profondità teologica che lo contraddistingue, Benedetto XVI ha identificato nella Messa il cuore della vita della Chiesa e nella sua Liturgia la manifestazione esterna, quindi fruibile da parte dei fedeli, di tale cuore. E, già da Cardinale, Joseph Ratzginer preannunciava ciò che avrebbe fatto, poi, da Pontefice, dimostrando come questo atto, centrale nel suo pontificato, sia il frutto di anni di riflessione e di preghiera. «Personalmente ritengo che si dovrebbe essere più generosi nel consentire l'antico rito a coloro che lo desiderano. Non si vede proprio che cosa debba esserci di pericoloso o inaccettabile. Una comunità mette in questione se stessa, quando considera improvvisamente proibito quello che fino a poco tempo prima le appariva sacro e quando ne fa sentire riprovevole il desiderio. Perché le si dovrebbe credere ancora? Non vieterà forse domani, ciò che oggi prescrive? Ma un semplice ritorno all'antico non è una soluzione. La nostra cultura si è così trasformata negli ultimi trent'anni che una liturgia celebrata esclusivamente in latino comporterebbe un'esperienza di estraniamento, insuperabile per molte persone. Quello di cui abbiamo bisogno è una nuova educazione liturgica, soprattutto dei sacerdoti. Deve diventare nuovamente chiaro che la scienza liturgica non esiste per produrre continuamente nuovi modelli, come può valere per l'industria automobilistica. Esiste per introdurre l'uomo nelle feste e nella celebrazione, per disporre gli uomini ad accogliere il Mistero.» (cfr. Joseph Ratzginer, Il sale della terra. Cristianesimo e Chiesa Cattolica nella svolta del terzo millennio. Un colloquio con Peter Seewald, Cinisello Balsamo: Ed. S.Paolo, pp. 199-202).

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